I comuni dei Colli Euganei
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Comuni dei Colli Euganei - ArquA' Petrarca

ANCORA STORIA DI ARCQUA' PETRARCA.

Discutendo sulle origini di Arqua' si cade di solito in un equivoco: il noto insediamento preistorico di localita' la Costa viene considerato come la prima fase di una sequenza non piu' interrotta, che si sarebbe sviluppata nei secoli fino ad imprimere al paese l'odierna configurazione. L'attuale nucleo abitativo di Arqua' e' invece di chiara origine medievale, anche se non si puo' negare una ipotetica continuita' con epoche remote: sorto su di una probabile linea difensiva che doveva esistere gia' in epoca barbarica e collegante la Rocca di Monselice, centro della locale giurisdizione politico amministrativa longobarda, con Valle S. Giorgio, Cinto Euganeo e la fascia pianeggiante verso Vicenza, a ponente dei colli. La stazione preistorica, sviluppatasi sulle rive del laghetto della Costa, ai confini dei territori arquatensi e monselicensi intorno all'eta' del bronzo e messa in luce sul finire del 1800, dovrebbe riferirsi ad un piu' vasto insediamento di popolazioni primitive che avevano come fulcro avanzato i colli Rocca e Montericco. Nel laghetto sono stati ritrovati reperti di grande interesse ed alcuni con su riportate delle simbologie che delineano una sviluppata cultura spirituale tanto da far ritenere che ci sia una correlazione, su di un piano magico-religioso, tra abitatori e acque termali presenti presso il laghetto.

Che il territorio di Arqua' fosse comunque abitato in periodo venetico, ma soprattutto romano, appare dimostrato dai toponimi prediali, derivanti dal nome del proprietario del fondo (Bignago da Bennius, Mercurana da Mercurius), e dai reperti archeologici rinvenuti (cippi funerari, frammenti fittili, monete imperiali, condutture per lo scarico dell'acqua). Del resto sappiamo che anche i Romani non furono insensibili all'amentita' dei colli Euganei. C' e' una tradizione che parla dell'esistenza in Arqua', di un tempio dedicato al dio Apollo, innalzato proprio sul Monte Castello, e forse non e' del tutto una fantastica invenzione. Il nome del paese, dal latino Arquatum o Arquata volgarizzato poi in Arquada, e' di ipotetica coniazione medievale. Appare in un documento del 985 e cio' testimonia l'antichita' del luogo e della precisa destinazione, essendo chiamato castrum, castello. Il nucleo originario e' da collocare pertanto sull'altura detta Monte Castello, a ricordo delle fortificazioni oggi scomparse; ai piedi e a mezza costa della collina sorsero poi gli edifici per il culto, uno votato a S. Maria e ricordato con l'importante titolo di pieve nel 1026, l'altro della SS.Trinita' e menzionato nel 1181. A questo proposito va sottolineato che in origine queste erano chiese matrici cioe' che possedevano il fonte battesimale e proprio l'intitolazione a S. Maria e' segno, nella diocesi padovana; di primitivita'.

Attorno al castrum di Arqua' si sviluppo' pure l'abitato, dalla parte interna rispetto la pianura e percio' meglio difeso, distribuito nella valletta formata dalle pendici contermini di Monte Castello e Monte Ventolone. La localita' divenne feudo dei Marchesi d'Este entro' successivamente nell'orbita politica di Padova, tanto che nel 1276 venne stabilito che il Podesta' di Arqua' fosse padovano e avesse almeno 25 anni. Elevata infine dalla signoria Carrarese al rango di vicaria, fu allora che Arqua' ebbe la ventura di ospitare il Petrarca e di accoglierne le spoglie mortali. Da questo momento la sua storia e' segnata dalla presenza della tomba del poeta. Arqua' al tempo del Petrarca viene descritta, in un documento che si trova nel Museo Civico di Padova, come: "vasti boschi di castagni, noci faggi, frassini, roveri coprivano i pendii di Arqua', ma erano soprattutto la vite, l'olivo e il mandorlo che contribuivano a creare il suggestivo e tipico paesaggio arquatense". Una vegetazione e una pace che forse hanno richiamato alla mente del poeta un'altra terra a lui cara, la Toscana, e cosi' si decise a stabilirsi in una casa decorosa che si distingueva certamente dalle altre assai povere dei contadini e degli artigiani. Queste infatti erano casupole con il perimetro in muratura o in legno, quasi sempre coperte di paglia, poche forse presentavano gia' la caratteristica recinzione lapidea, a protezione dell'intimita' e a contenimento delle terrazzature, con l'orto, il viridario o broilo, e a fare da gentile e utile cornice. Nel trecento i declivi attorno al paese, erano punteggiati di vigneti dalle prelibate uve bianche, garganica e schiava, in prevalenza, ma pure moscata, palestra e marzemina. L'ottimo vino che se ne ricavava giungeva fino agli osti di Padova. Il nome della localita' non correva solo per il vino eccellente: alcuni suoi figli si distinsero infatti nelle varie professioni o vennero chiamati a ricoprire incarichi pubblici o ecclesiastici. Il piu' illustre, nel secolo XIV, fu un medico, Giacomo da Arqua'. Portato dalla meritata fama presso la corte di re Lodovico d'Ungheria, nel testamento, non dimentico' il paese natale e volle un'opera benefica: "una cisterna vera la qual sia comune a tutti nella villa Superiore d'Arqua'.

La Repubblica di Venezia, che si era intanto sostituita fin dal 1405 al dominio carrarese, mantenne al luogo la sua importanza confermandogli l'ampia giurisdizione vicariale che comprendeva altri e numerosi centri collinari, come Baone, Galzignano, Montegrotto, ecc., mentre la fama e la moda petrarchesche spinsero alcune famiglie aristocratiche padovane e veneziane, e tra queste i Cotarini, i Pisani, i Capodivacca, gli Zabarella ecc., a costruire delle dimore, se non sontuose, certo di nobile fattura. Il paese cosi' completo' l'assetto urbanistico che tutt'ora conserva, anche se dopo il secolo XVI (fortunatamente) non si costrui' piu' molto. Dopo un lungo periodo di decadenza ora Arqua' sta risorgendo in tutto il suo splendore per l'orgoglio dei propri abitanti, di vivere in un luogo cosi' particolare e dal gusto ancora medievale.
Li' dove l'acque spumavano, una scossa di fiamma sotterranea fa balzar le montagne; e rimangono conchiglie fra le alte rupi; e da' vulcani novelli scorre la lava nel mare; le isole piu' e piu' si dilatano e si congiungono alla terra lontana; i massi ignudi si vestono di musco, di macchia, di grande foresta. Similmente dall'anima agitata le passioni prorompono; e la rovinosa forza loro e' pur tuttavia creatrice, che porta in alto il vero latente: e poi, freddato il primo impeto, le rovine, per benefizio del tempo e per la fatica dell'uomo, s'ingentiliscono di coltura fruttuosa. Per simil modo altresi', dal dolore e dall'amore violento si generano a poco a poco i grandi concetti e le immagini belle; quasi ripide alture seminate di fiori, quasi prospetti da' quali lo sguardo domina gran tratto il cielo, e vagheggia tra 'l verde il raggio d'oro, e s'insinua tra valli amene, guidato dalla lucida striscia dell'acque correnti. Sui Colli Euganei non a caso vennero a riposare le stanche ossa del Fiorentino che amo' di doloroso amore Laura e l'Italia. Nulla e' a caso nel mondo: ma nella vita degli uomini singolari appariscono in singolar modo distinte le ragioni e gli effetti delle vicende che paiono essere abbandonate alla cieca fortuna. Nella regione Euganea memorie diverse di diverse eta', da Fetente al Foscolo, e da Antenore a Napoleone, dovevano lasciare vestigi.

Padova e Roma e Firenze erano secondo la favola, colonie di Troia: gli Euganei e gli Etruschi eran forse del medesimo sangue. Nelle medesime mura dovevano a breve intervallo di tempo trovarsi due esuli fiorentini del cui verso l'Italia s'onora: Dante, sospirando amaramente alla patria perduta; il Petrarca freddamente gli inviti di lei rifiutando.
Certo che in tutta la Toscana non facilmente potevasi trovare ricetto piu' ameno di Arqua'. Ugo Foscolo che in uno de' Saggi intorno al Petrarca descrive si' vivamente Valchiusa, nelle lettere di Jacopo Ortis non dipinge la bellezza dei luoghi si' che il pensiero li riconosca, e salga e scenda per essi. Non vedi i poggi, ma l'aura ne senti. E in que' tocchi stessi che son piu' rettorici, e' notabile, massimamente in giovane, la parsimonia, pregio ignoto agli abbiatorelli ammiratori del Foscolo, e che fino i piu' comuni concetti fa parer singolari. Il vero si e' che, tranne l'unico Dante, i poeti nella rappresentazione de' luoghi, assai sovente tralasciano le particolarita' minute e piu' proprie; e colgono que' punti di bellezza che sono comuni a numero grande d'oggetti: ma li scelgono tali che il comune tenga dell'universale anziche' del triviale, del semplice anziche' dell'abietto. In Dante la forma universale conserva insieme la fedelta' del ritratto: e tanto piu' mirabile e' l'efficacia del suo dipingere, che poche pennellate gli bastano, o pure una sola, a far balzare alla mente l'immagine intera. Laddove nello Scott ed in altri moderni (senz'eccettuare il sommo nostro Manzoni) la cura del particoleggiare disperde, anziche' raccogliere l'attenzion de' leggenti; e per aggiungere chiarezza, scema parecchie volte evidenza: Non e' parola che valga a rendere le tinte con si' delicata e si' ricca varieta' digradanti, dell'azzurro e del verde, il color delle nubi, e la forma de' colli, che o soli o appoggiati l'uno all'altro fraternamente, s'abbelliscono con la mutua bellezza; le rapide chine, i dolci declivii; le cime o salenti quasi gradini d'altare magnifico, o ratto levantisi come pensiero ispirato; i grandi alberi che da lontano appaiono come macchie, da vicino ondeggiano come mare fremente per vento; la pianura che lieta per breve spazio si distende come viandante che posa per ripigliare la via, e le vallette rimote che paiono, quasi un angusto sentiero, correre sinuose tra' monti.

La casa del Petrarca volge le spalle a tramontana: ha da mezzogiorno un prospetto assai ampio di piano leggermente ondeggiante, con di fronte un colle non alto, che solo s'innalza, e che par che renda l'immagine della Lirica petrarchesca, solinga e gentilmente pensosa. Laddove l'epopea dell'Alighieri e' catena di montagne, l'una sull'altra sorgenti, con ghiacci e verde, nebbia e sereno, ruscelli e torrenti, fiori e foresta; ardue cime e caverne cupamente eccheggianti. Da manca a levante, altre case tolgono la vista de' colli, che forse un tempo era libera: e certo quelli d'allora erano men poveri e meno ineleganti edifizi; dacche' tuttavia ci rimangono frammenti di stile archiacuto, siccome altrove pe' colli rincontransi tuttavia macerie e lapidi romane. Da ponente, a diritta, i poggi sono piu' presso alla casa, e la rallegrano delle lor forme belle: a ponente e' l'orto, che avra' allora avuto certamente un piu' vago disordine che i giardini moderni, e altre piante che i giuggioli e i fichi d'adesso. A ponente era lo stazino dello studio, dove il vecchio onorando, inchinando il capo o a preghiera o a meditazione non dissimile dalla preghiera, mori'. Grato all'anime meste l'aspetto del sol cadente; grata quell'ora di sereno e stanco riposo, ch'e' come augurio di morte placida, consolata da luminose speranze. In queste stanze, digiunando sovente a pane ed acqua, vigilando sempre dalla mezza notte, lmando con isquisita cura i suoi versi, e meditando la morte, egli visse quattr'anni; se non che a mal suo grado talvolta lo chiamavano a Padova od a Venezia le faccende de' suoi protettori ed amici. A Venezia gia' nel 1363 gli erano passati tre mesi della state in compagnia d'un amico, povero, ma illustre assai piu' de' principi protettori; di quel Boccaccia la cui novella egli vecchio e famoso doveva nella solitudine d'Arqua' tradurre in latino; quel Boccaccia al qual egli nel testamento lascio' da comprarsi la zimarra pel verno. E nella Venezia del trecento, nella qual tuttavia sobbollivano de' popolani spiriti antichi, piu' mirabile assai di quella che noi vagheggiamo, fitta gia' d'armate galee gravide del commercio d'Europa, fitta di genti animose, in faticate, fitta di templi e di civili edifizii, ogni giorno sorgenti con semplice e puro disegno (che' i Longhena e i Benoni erano lontani ancora); nella Venia del trecento passeggiava il Petrarca, ripensando forse alla Francia, e a Parigi trent'anni fa visitata, il cui sudiciume doveva, come a lui, far uggia all'Alfieri quattrocento venti anni dopo. Alla parete forse di questa piccola stanza di fronte ai poggi, a ponente, era apparsa l'immagine della Vergine, egregia dipintur di Giotto, la quale il Petrarca morendo lascio', dono da poeta e piu' che da principe, al signor di Carrara. A quella immagine riguardando - (oh perche' non l'abbiamo noi? Perche' non possiamo affisar gli occhi in quella bellezza dolcemente austera, nella quale s'affissarono commossi gli occhi di Francesco Petrarca? E la pieta' degli sguardi del vecchio ritornerebbe a noi quasi riflessa dalla tavola cara) - a quella immagine riguardando, ed or alla parete, or al monte, or al cielo sereno volgendo il viso, egli avra' ripensati, e come santa preghiera ridetti nell'anima i versi: Vergine bella; dove ogni stanza e' ripetuto con istante fervore e con soavita' penetrante il dolce nome di Vergine. In questa camera accanto dormiva col marito la figliuola che Francesco ebbe d'illecito amore, d'altro amore che quello di Laura. Come potesti, o Fiorentino, adorare la figlia del sindaco d'Avignone, e con tutti i desiderii del cuore e de' sensi desiderarla, e sospirare di lei in ogni valle, e spargere ai quattro venti i sospiri; e in questo men abbracciarti a un'altra donna; ed avutone un figlio, riabbracciarteli ancora? Ed averne questa figliuola, che adesso mentre tu vecchio e pentito, correggi cantando un sonetto in morte di Laura, entra nella tua stanza, e ne' suoi lineamenti ti porta altri rimorsi e l'immagine d'un'altra bellezza. Oh poeta, tu ch'hai tanto pianto d'amore, hai tu veramente amato mai?

La tavola di Giotto che orno' la casa del Petrarca, e' perita; e' perita la signoria carrarese: ma consoliamoci: la gatta del Petrarca non ha abbandonato il suo posto. E molti di coloro che visitano Arqua' non per amore del dolce tuo canto, o poeta, e dell'ameno soggiorno, ma lo visitano perche' altri l'ha visitato; guarderanno piu' attentamente alla gatta che ai colli, piu' alla gatta che ai terzetti dell'Alfieri, che sono meglio temprati e piu' antichi versi ch'abbia la moderna poesia; piu' alla gatta che al nome di Grigio Byron, che senza titolo ne' altra parola sta' confuso fra tanti e dice piu' d'ogni lode. Tale e' il destino della gloria mondana, acciocche' gli uomini se ne svoglino: che quando ell'ha vinto la calunnia e l'invidia, quando non le puo' dar noia ne' la rabbia de' deboli ne' la paura dei forti, rimangono a perseguitarla l'ammirazione stupita, la lode sguaiata e profanatrice. Accorrevano da molte parti d'Europa e del mondo a vedere la casa del Petrarca; ed intanto lasciavano che la pioggia e le lucertole entrassero nella sua sepoltura. Ma il conte Carlo Leoni, padovano, assumendo co' titoli gli obblighi aviti, fece quello che un da Carrara avrebbe fatto potendo, riparo' la tomba cadente: ne' questo esempio soltanto agl'Italiani raccomando' il proprio nome. Possano le ossa di colui che riposa in mezzo ai poveri contadini, colui che aveva pregiato tanto il contadino di Valchiusa e l'orefice di Bergamo, possano rammentarci com'uno de' piu' grandi ingegni d'Italia sia morto; morto nella solitudine, dopo aver conosciute le dimore di certi grandi; dopo avere, se non lusingate, almen viste senza sdegno le loro crudeli ingiustizie, e accettata da loro l'ospitalita', e ricusatala dalla propria repubblica, e sofferto da essi il nome d'amico.

Si tratta di un brano tratto dall'opera "i colli Euganei" pubblicata nel 1845, redatta dai maggiori intellettuali veneti dell'epoca. e' il primo lavoro interdisciplinare di cui sono stati fatti oggetto i Colli Euganei; esiste una copia di questo libro nella biblioteca di Stato di Vienna, che era appartenuta all'imperatore Francesco Giuseppe, e la Banca di Sant'Elena l'ha ripubblicata in poche copie con le medesime caratteristiche tipografiche.

A cura di Alberto Zoggia

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